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Il diaframma in fotografia

Vi sarà sicuramente capitato, più di qualche volta, di aver sentito il termine “triangolo dell'esposizione”. Questo elemento, che non ha niente a che fare con la geometria, rappresenta l'insieme dei tre componenti principali che ci permettono di realizzare una foto correttamente esposta. In un nostro precedente articolo (che potete trovare qui), abbiamo iniziato a parlare di uno dei fondamenti del triangolo dell'esposizione, e cioè della velocità dell'otturatore (quindi della velocità di scatto) e oggi vorremmo parlare di un altro protagonista di questa preziosa combinazione e cioè del diaframma e del suo funzionamento.

Per capire il funzionamento del diaframma (elemento presente all'interno all'interno dell'obbiettivo), basta pensare al funzionamento dell'occhio. Avete presente quelle situazioni di luce intensa con il sole così accecante da costringervi a portare gli occhiali scuri? Vi sarà capitato sicuramente di notare che, gli occhi del vostro interlocutore (o magari i vostri, in un momento in cui avete avuto la possibilità di specchiarvi), in quelle particolari condizioni di luce, avranno la pupilla estremamente ristretta, mentre in condizioni di luce scarsa, la pupilla sarà particolarmente dilatata.

Cosa significa questo movimento di “chiusura” e “apertura”? Semplice... serve a modulare la quantità di luce in grado di penetrare, nel caso dell'occhio, cornea e cristallino, nel caso della nostra macchina fotografica, attraversare l'obbiettivo e colpire la superficie fotosensibile (nel caso della odierne macchina, parliamo del sensore).

Ogni obbiettivo, presenta al suo interno, un complesso sistema di lamelle che, sovrapponendosi, formano un foro. Questo movimento viene comandato direttamente da un dispositivo (generalmente una rotella di comando) posto sul corpo macchina, mentre in passato, il movimento di chiusura o apertura veniva gestito da una ghiera posta sull'obbiettivo stesso.

Capire il funzionamento del diaframma, rappresenta uno degli elementi salienti della tecnica fotografica, perchè esso determina, la quantità di luce che andrà a a colpire il nostro sensore, e tale quantità di luce sarà in grado di produrre effetti diversi a seconda del suo utilizzo.

Dal punto di vista squisitamente tecnico, il diaframma, come abbiamo appena detto, è formato da lamelle che verranno azionate dal pulsante di scatto.

Quando facciamo “click” con la nostra macchina, azioniamo una serie di meccanismi sia a livello di corpo macchina che dell'ottica che stiamo utilizzando:

  • le lamelle si muoveranno creando un foro della dimensione impostata prima dello scatto

  • nel caso di una reflex tradizionale, si alzerà lo specchio

  • le tendine dell'otturatore si muoveranno per esporre il sensore alla luce sulla base del tempo impostato in fase di scatto.

I fori che vengono realizzati dalla sovrapposizione delle lamelle, vengono misurati in unità di misura definita “Stop” indicato dalla lettera “f”. Questa scala numerica, apparentemente sembra avere una logica complessa, in quanto i numeri più piccoli, rappresentano aperture maggiori mentre i numeri più alti, indicano fori di dimensioni piccolissime (per intenderci f/4 indica un foro di dimensioni decisamente maggiori di f/22 che invece rappresenta un foro piccolissimo).

Ma come si fa a capire quanta luce passa in più o in meno tra una dimensione di foro e un'altra? Esiste una regola matematica che si basa su scala quadratica cioè, per semplificare il concetto, possiamo dire che al crescere di ogni f-stop si dimezza la quantità di luce che il foro lascia passare. Al contrario, a ogni diminuzione di f-stop, raddoppia la quantità di luce che verrà fatta passare.

Quindi, se per esempio, passiamo da f/5.6 a f/8 stiamo dimezzando la quantità di luce in grado di passare.

Abbiamo quindi definito che l'apertura gestisce la quantità di luce che passa attraverso l'obbiettivo, ma come abbiamo visto nell'articolo sul funzionamento dell'otturatore, anche quell'elemento compie la medesima funzione. La domanda che può sorgere spontanea quindi è se si possono realizzare delle foto senza utilizzare il diaframma. In teoria si, basti pensare agli esperimenti che si fanno spesso ai corsi di fotografia, utilizzando la tecnica della fotografia stenopeica, che prevede di creare una scatola perfettamente chiusa che presenta al suo interno un foglio di carta fotosensibile. Nella parte opposta alla superficie della carta fotografica, viene realizzato un piccolissimo foro (generalmente con un ago) in modo che la luce, filtrando attraverso il foro, possa colpire la superficie fotosensibile. A seconda della tipologia di carta utilizzata, l'esposizione può variare da uno a diversi minuti prima di ottenere un determinato risultato.

Ora, se è pur vero che sarebbe possibile ottenere un fotografia in questo modo, l'obbiettivo ha un altro fondamentale compito, e cioè quello di permettere di decidere la profondità di campo (oltre all'utilissima funzione, soprattutto nei tele di poter "zoommare" su un soggetto lontano).

Infatti, la quantità di luce in grado di passare attraverso il foro del diaframma, avrà un forte impatto sulla foto finale in quanto influisce sulla nitidezza del primo piano e sul piano di fondo, quella che in gergo viene appunto definita “profondità di campo” (PdC).

Se è pur vero che nel determinare la messa a fuoco, entrano in gioco anche la distanza dal soggetto, la lunghezza focale dell'ottica e la dimensione del sensore, uno dei parametri fondamentali per la definizione del fuoco e dello sfocato è proprio il diaframma.

Per semplificare concettualmente questo gioco di profondità diverse, possiamo dirvi che se avete la necessità di avere un elemento in primo piano perfettamente a fuoco e volete che l'attenzione dello spettatore si concentri solo su esso, bisognerà sfocare lo sfondo (creando quindi un primo piano perfettamente a fuoco e uno sfondo sfocato che metterà in totale risalto l'oggetto/soggetto a fuoco) e ciò si ottiene aprendo il diaframma.

Al contrario, se abbiamo la necessità di ottenere il massimo della nitidezza su tutti i piani, il diaframma dovrà essere chiuso il più possibile.

Proprio questo gioco di aperture e chiusure identifica anche la qualità delle ottiche, perchè non tutti gli obbiettivi hanno le stesse aperture.

Quando leggete la sigla di un obbiettivo, accanto alla lunghezza focale (50mm, 135mm, 24-70 mm, 70-200mm ecc...) trovate una sigla espressa con la f. Ad esempio Canon EF 24-70 f2.8, indica che l'obbiettivo in questione avrà un'apertura massima di f2.8 su tutta la lunghezza focale, sia essa 24mm oppure 70mm. Nel caso del Canon EF 24-105 f3.5-5.6, significa che la massima apertura sarà di f3.5 sulla focale 24 mm mentre scenderà a f5.6 nel caso della focale 105 mm.

La capacità delle ottiche di avere un'apertura molto ampia (f2.8 o anche meno) rappresenta uno degli elementi che ne determinano la qualità di produzione e di conseguenza anche il prezzo. Possiamo dire che in generale, più l'apertura è ampia e più l'ottica sarà costosa: inoltre, per quanto riguarda gli zoom, è difficile trovare queste ottiche con aperture ampie perchè sono estremamente complesse dal punto di vista produttivo, e quindi, quando ce l'hanno, sono ancora più costosi delle ottiche fisse.

Per quanto riguarda l'apertura minima, invece, questo elemento è piuttosto standard e moltissime ottiche si fermano a f/22 (anche se in alcune lenti macro si arriva a f/32, mentre altre ottiche si fermano a f/16).

Quando gli obbiettivi possiedono aperture molto ampie, vengono definiti ottiche luminose e quindi “veloci” perchè, permettendo l'entrata di una quantità di luce maggiore, lavorano con velocità di otturatore molto elevate oltre a migliorare le prestazioni dell'autofocus.

Infatti nel caso di aperture elevate, non è facilissimo avere immagini molto nitide, e quindi bisogna fare molto affidamento sul proprio autofocus avendo cura di scegliere un soggetto abbastanza fermo, preferendo per soggetti in movimento, invece, aperture più ridotte.

Oltre all'apertura massima, un altro elemento che contraddistingue il diaframma è il numero e la forma delle lamelle che lo compongono. Questi elementi mobili, non solo determinano la dimensione del foro attraverso cui passa la luce, ma ne definiscono anche la forma. Il caso più evidente è nella realizzazione del famoso effetto “bokeh” dove è possibile osservare le forme poligonali delle luci al posto della più morbida forma rotonda.

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